COMMONFARE E REDDITO DI BASE INCONDIZIONATO - DI ANDREA FUMAGALLI



Alcune considerazioni su una possibile riforma del welfare  (Andrea Fumagalli).


L’obiettivo è quello di accompagnare la lotta sindacale di difesa e miglioramento delle condizioni di lavoro (dalla stabilità del posto di lavoro, al miglioramento delle condizioni salariali, alla sicurezza del posto di lavoro, contro ogni forma di discriminazione, rispetto dei diritti e lotta per nuovi diritti, …)  con una proposta più complessiva in grado di poter prospettare una vita migliore e più libera. In una parola, un’idea di nuovo welfare in grado di essere adeguato alle condizioni contemporanee di accumulazione e rispondere alle esigenze dell’oggi. Non si tratta di sterile masturbazione intellettualoide né di astrazione autoreferenziale né di non tenere conto in modo concreto degli attuali reali rapporti di forza e delle condizioni politiche esistenti. Si tratta di cercare di delineare una prospettiva positiva che possa essere di supporto (anche psicologico) alle lotte in atto, anche con l’obiettivo di ricomporre l’attuale frammentarietà e eterogeneità della condizione precaria.

Senza farla troppo lunga, il primo nodo da affrontare è la complessa composizione sociale della forza lavoro di oggi, tra migranti ricattati dal permesso di soggiorno e precari ricattati dalla mancanza di reddito e di sicurezza sociale. Il tutto aggravato dalla fase di emergenza socio-economica.

Credo sia necessario discutere tra noi e partire da alcuni punti:

  1. Condizioni di lavoro e struttura del welfare sono due facce della stessa medaglia. Non si può intervenire sull’uno senza intervenire sull’altro. Sarebbe bello se nelle vertenze in atto se ne tenga conto, laddove è ovviamente possibile.
  2. I settori del welfare sono quelli che oggi presentano le più alte possibilità di accumulazione capitalistica. Salute, istruzione, servizi di pubblica utilità hanno subito nelle ultime decadi profondi processi di ristrutturazione che si sono sviluppati in due principali direzioni. Da un lato buona parte del welfare è oggi sottoposto a una fase di finanziarizzazione, secondo la quale la possibilità di accedere a tali servizi passa attraverso l’intermediazione dei mercati finanziari e assicurativi privati. Fondi pensioni, assicurazione sanitarie, accensioni di debiti per l’istruzione sono solo alcuni esempi degli strumenti che oggi selezionano in modo discriminatorio, in funzione del reddito disponibile, la possibilità di godere di tali servizi. Il principio di universalità dei servizi sociali è oggi un pallido ricordo, in linea con i dettami dell’idea di “workfare”. Dall’altro, si è modificata la logica della governance di tali servizi anche quando rimangono di gestione pubblica-statuale. La diffusione del New Public Management ha introdotto anche nell’impresa statale il criterio dell’efficienza e della profittabilità soprattutto all’indomani delle liberalizzazioni che hanno trasformare tali società in SpA, aprendo così la strada a possibili privatizzazioni (vedi caso Enel in Italia). 
  3. E quindi il welfare oggi a rappresentare il terreno più fertile per aprire una potenziale stagione di nuova conflittualità. Partire dal welfare (dal bios, dalla vita) per arrivare alla cura e al lavoro.

Ci domandiamo ora quali possono essere le strategie più adeguate per far partire questo nuovo fronte di potenziale conflittualità, ovvero una vertenza tesa a migliorare le condizioni di vita (che vanno oltre le condizioni di lavoro e della cura), in grado di ridurre e ricomporre la frammentazione sociale che oggi domina.

L’obiettivo è costruire un nuovo modello di welfare, che ci piace chiamare “Commonfare” (Welfare del comune), in grado di garantire il più possibile l’autodeterminazione delle persone, garantire in modo effettivo e reale (e non solo formale) l’esercizio del diritto di scelta (anche di dire no), al fine di partecipare in modo attivo alla cooperazione sociale e riappropriarsi dei beni comuni naturali e intangibili (conoscenza, formazione, salute, socialità, riproduzione sociale) in grado di creare la ricchezza comune sociale.

L’dea di Commonfare si basa su tre pilastri:

  1. reddito di base incondizionato, inteso come reddito di remunerazione (e non solo di protezione sociale), ovvero reddito primario, finalizzato a riconoscere quegli atti della vita umana che sono oggi, grazie alle tecnologie algoritmiche, produttrici di valore di scambio a vantaggio delle corporations multinazionale e che oggi avvengono in regime di gratuità. Il lavoro non pagato si accompagna sempre più al lavoro precario come paradigma della contemporaneità, in un processo di dumping sociale e salariale sempre più pesante (https://www.questionegiustizia.it/articolo/il-reddito-di-base-sociale-incondizionato-rbsi-come-reddito-primario-e-istituzione-del-comune_28-04-2020.php).
  2. acceso libero e gratuito ai beni comuni, naturali e intangibili
  3. l’utilizzo di strumenti di autonomia monetaria per non dipendere dai vincoli imposti dai vari patti di stabilità, tramite la creazione di circuiti monetari alternativi, finalizzati ad aprire un bilancio pubblico sociale, gestito dal basso (che si aggiunge, senza sostituirlo, quello tradizionale in euro), in grado di finanziare gli interventi di Commonfare.

In questo intervento mi limito a trattare il punto a.

L’obiettivo è approvare, qui e ora, una legge che istituisca un reddito di base incondizionato in grado di consentire, per il momento, di portare tutti gli individui che oggi sono sotto la soglia di povertà relativa a quella soglia. Tale soglia è pari al 60% della mediana della distribuzione del reddito familiare equivalente nel paese di residenza. Oggi corrisponde a circa 830 euro a persona al mese (poco meno di 10.000 euro l’anno).

Al momento attuale è operativo il reddito di cittadinanza in salsa 5S. Eroga, in modo condizionato (nei comportamenti e nei consumi), sussidi al reddito a circa 1,1 milione di famiglie (circa 3 milioni individui), pari al 37,5% dei poveri relativi. Si tratta quindi di una misura insoddisfacente oltre che discriminante (soprattutto per i migranti), che mantiene inalterata la logica punitiva del welfare e il business che ruoyta intorno alla povertà. 

La prima proposta è quindi estendere la legge esistente, come proposto da un appello del BIN-Italia, che ha raccolto migliaia di firme (https://www.bin-italia.org/appello-per-estendere-il-reddito-di-cittadinanza-aumentano-le-adesioni-firma-anche-tu/). Da un lato, eliminando le condizionalità (già ora, temporaneamente, non più operative causa Covid19), dall’altro, ampliando la platea dei beneficiari.

Ci sembra la via più semplice e più corretta, invece di proporre nuove forme di reddito (di cura, di emergenza, di quarangena, ecc.), al fine di evitare ruolizzazioni indebite e non far dipendere la protezione sociale dalla condizione professionale, in una logica di segmentazione del tutto inappropriata. 

Per affrontare in modo corretto tale questione, occorre prima calcolare la somma necessaria per raggiungere l’obiettivo di garantire a tutte e a tutti i residenti (e non solo cittadini) una continuità di reddito pari ad un minimo di 10.000 euro l’anno. Una somma che potrebbe consentire di esercitare, anche se parzialmente (perché sarebbero necessarie anche altre condizioni, ad esempio l’acceso ai servizi sociali)e, il diritto alla propria autodeterminazione. Una volta stimata tale somma, individuare le forme di finanziamento.

In altre parole, occorre rovesciare la logica oggi dominante, che consiste prima nel mettere a disposizione alcune risorse, in base ai vincoli finanziari esistenti, e poi, sulla base di tale ammontare, vincolarne l’accesso. Come è stato fatto per la legge sul Redito di Cittadinanza.

In Italia (dati 2019, pre Covid), i poveri relativi sono circa il 12,8% della popolazione, circa 8 milioni di persone. La stima dei costi necessari per portare tutti i poveri relativi al di sopra dell’attuale soglia relativa è compresa in una forbice tra i 19 miliardi e i 30 miliardi, a seconda se si considera la casa all’interno del calcolo del reddito Isee. Ogni anno vengono trasferite alle famiglie circa 9 miliardi di euro, sotto forma di sussidi per l’inoccupazione (Aspi, Naspi, mobilità, indennità di disoccupazione, varie forme di cassa integrazione, ecc), al netto dei trasferimenti previdenziali (che essendo redito da lavro, non possono essere considerati).  Se la misura di reddito minimo di base incondizionato va a sostituire l’80% di tali trasferimenti, come esito di una ristrutturazione e semplificazione del sistema degli ammortizzatori sociali oggi tra i più iniqui e distorti a livello europeo, a favore di un’unica misura, ne consegue che il costo netto si aggira in una forbice tra 10 e 21 miliardi di euro. Si tratta di una cifra impegnativa ma abbordabile, anche tenendo conto degli effetti indiretti di una simile misura, in grado di favorire processi di autofinanziamento.

Facciamo, infatti, riferimento all’aumento del moltiplicatore del reddito grazie all’aumento della propensione marginale media al consumo (in seguito al trasferimento di reddito verso famiglie e individui che consumano quasi interamente il proprio reddito) e all’incremento della domanda aggregata. In presenza di un’imposizione fiscale progressiva (tema che deve essere affrontato), ne conseguirebbe un aumento delle entrate fiscali superiore alla crescita del PIL con un positivo effetto anche sulla riduzione del rapporto debito/Pil.

In questa versione di un reddito incondizionato ma con i means test, viene sacrificato il requisito dell’universalità immediata dell’accesso alla misura di reddito di base, mantenendo però inalterato il principio di non chiedere in cambio nessun tipo di contropartita e obbligo comportamentale (disponibilità al lavoro o alla formazione, in primo luogo) o di consumo e consentendo, comunque, un livello di reddito tale da garantire una maggior libertà di scelta e di rifiuto Crediamo che un obiettivo di questo tipo sia praticabile nel breve periodo.

Per maggiori info: http://effimera.org/osservazioni-sul-reddito-di-andrea-fumagalli/.