IL METODO DI GOVERNO DELLE CITTA' - ASS. MONDRAGONE BENE COMUNE




Contributo dell’Associazione Mondragone Bene Comune 


Quale metodo per il governo delle città future 


Il metodo con il quale amministrare le città del futuro dovrebbe poggiare sostanzialmente su tre pilastri: la Generatività, la Sussidiarietà e la Deliberazione


La generatività come “possibilità di compiere un energico salto verso la produttività e la creatività al servizio delle generazioni.. ” (Erik Erikson), può essere contrapposta all’attuale stagnazione culturale, sociale, istituzionale e democratica della città ed essere una prima leva sulla quale poggiare un nuovo processo di sviluppo sociale e di partecipazione democratica. Generare non è produrre, è un’azione trasformativa che rende le persone capaci di gestire una libertà che non è consumo individualizzato ma opera relazionale. La generatività sociale (Mauro Magatti) come rigenerazione dei legami comunitari trova, in particolare, nel welfare l’orizzonte ove si può maggiormente sviluppare. 


Il Welfare Generativo (WG), superando la semplice dimensione del rendimento economico, può diventare la strada efficace per recuperare il valore della solidarietà, il valore della responsabilità e il valore dell’uguaglianza. Il welfare generativo (“Non ti posso aiutare senza di te”) passa “dalla logica del costo a quella del rendimento”, passa dall’enfasi sul valore consumato a quella del valore generato, supera “l’amministrazione senza rendimento” con soluzioni capaci di trasformare le risorse a disposizione, puntando sull’innovazione delle risposte e non solo sul loro efficientamento. Ha scritto Guglielmo Minervini, il compianto assessore regionale pugliese, che: “la politica generativa è quella che si crea quando l’amministrazione smette di chiedersi <quante risorse stanzio> e inizia a chiedersi <quante risorse attivo>”. Non a caso una proposta di legge presentata alla Camera dei deputati reca l’emblematico titolo di “Welfare generativo e corrispettivo sociale”. Si tratta, insomma, di un welfare che oltre alla logica “raccogliere e distribuire” si preoccupa di rigenerare le risorse, facendole rendere, grazie alla responsabilizzazione legata ad un nuovo modo di intendere i diritti e i doveri. A fronte di diritti individuali possono (debbono) corrispondere, in capo agli stessi beneficiari, dei doveri di solidarietà verso la Comunità. I diritti individuali, quindi, si trasformano attraverso un processo di restituzione in diritti a corrispettivo sociale, ovvero si riceve e si viene aiutati per essere in condizione di aiutare gli altri, con ricadute positive sia per il beneficiario che per la collettività. 


Sono già tante le esperienze generative dalle quali possiamo attingere per riprogettare il welfare, a dimostrazione che “generare è una dinamica umana intrinseca”. Vanno prese in considerazione, in modo particolare, le elaborazioni e le esperienze portate avanti in questi anni dalla Fondazione Zancan e occorre fare tesoro delle tante storie generative “raccontate” dall’Archivio della generatività sociale dell’Istituto Sturzo. Ma generare richiama anche la ri-generazione, soprattutto urbana, ovvero i percorsi e i progetti di rigenerazione che si possono attivare nella nostra città: dai singoli edifici ai quartieri interi. E anche in questo caso non mancano esperienze comunali già avviate da cittadini, comitati spontanei, associazioni, cooperative, che si ritrovano per reagire a situazioni di abbandono o di 

degrado. Una ri-generazione che potrebbe essere anche il primo passo verso un’economia sociale. 



Il secondo pilastro sul quale intendo poggiare la metodologia di governo delle nostre città dovrebbe attenere alla Sussidiarietà (orizzontale e circolare), che in qualche modo si intreccia con la generatività. Anche la sussidiarietà si muove nella logica che le persone sono portatrici non solo di bisogni ma anche di capacità che possono essere messe a disposizione della Comunità per dare soluzione, insieme alle amministrazioni pubbliche ai problemi di interesse generale. La Sussidiarietà orizzontale è stata acquisita nel 2001 alla nostra Carta costituzionale (4° comma, art. 118, Cost.), la quale ha riconosciuto che i cittadini sono in grado di attivarsi autonomamente nell’interesse generale. I cittadini comuni, quindi, possono occuparsi della cosa pubblica pur continuando ad essere “semplici” cittadini, ma emancipandosi dalla condizione di semplici utenti (o consumatori) per diventare partner dello Stato per lo svolgimento di attività di interesse generale. Qualcuno è andato oltre proponendo la Sussidiarietà circolare, un concetto diverso dalla sussidiarietà verticale e più estensivo ed esplicativo della sussidiarietà orizzontale. 


La Sussidiarietà circolare (riprendendo la matrice cattolica della “Caritas in Veritate”) ipotizza la società come una sorta di triangolo ai cui vertici vengono messi: enti pubblici, imprese e cittadini/organizzazioni della società civile. Questi tre vertici- definiti da Stefano Zamagni tricotomia pubblico, privato, civile- debbono interagire tra di loro in maniera organica e sistematica, su base paritaria, per definire ed implementare le cose da fare. La Sussidiarietà orizzontale/circolare, dovrebbe rappresentare uno dei pilastri del nuovo modo di amministrare le città, può innanzitutto agire per la corretta gestione dei Beni Comuni, ove siamo in molte città- per dirla con Garret Hardin- alla “tragedia dei Beni Comuni”. 


Ed anche in questo caso, non sono poche le sperimentazioni concrete dalle quali prenderemo esempio. Il Laboratorio per la Sussidiarietà ha già censito centinaia di Patti di collaborazione tra associazioni di cittadini e comuni e di Regolamenti per l’Amministrazione condivisa. Non mancano neppure buone pratiche di Baratto amministrativo, già sperimentato in diverse realtà comunali. Insomma, abbiamo già una vasta gamma di esperienze da cui attingere per passare al governo condiviso delle città. 



Il terzo pilastro della metodologia con la quale governare le città nel prossimo futuro è dato dalla Deliberazione. La democrazia rappresentativa è in crisi ad ogni livello e quasi ovunque. Pur essendo il modello egemonico nel mondo, continua progressivamente ad accumulare limiti e difficoltà. “Ci muoviamo sempre più verso il polo post-democratico” (Colin Crouch) in cui, a livello generale, sono ristrette élites ad assumere le decisioni rilavanti (burocrazie, lobbies, tecnocrazie, organizzazioni intergovernative, attori economico-finanziari, quasi sempre multinazionali, media ecc), le quali agiscono quasi sempre in “luoghi” defilati. A livello locale, invece, alle vecchie sedi di rappresentanze delle istanze collettive tradizionali (leggasi “partiti e movimenti politici”) sembrano consolidarsi sempre di più gruppi di interesse più o meno legati a dimensioni sovra comunali, oligarchie locali quasi sempre alimentate dalla dimensione professionale o familiare o di tipo castale, le quali si muovono soprattutto per consolidare il già acquisito. Il limite più evidente della crisi della democrazia rappresentativa è nell’idea, ormai largamente diffusa, che la persona comune sia politicamente irrilevante: al massimo contano i voti, ma non certamente la partecipazione e ancor meno l’argomentazione. Eppure, da alcuni anni a questa parte va prendendo piede in molti angoli del mondo ed anche nel nostro Paese un’altra idea di democrazia basata sulla <partecipazione dialogico- deliberativa>. 


“Deliberare” è sinonimo, nell’uso corrente, di “decidere” ed è un termine relegato nell’ambito amministrativo ed istituzionale. Si è perso nella nostra lingua l’originario significato latino: “de-liberare” (da libra, bilancia), che letteralmente significa “ponderare completamente”. In inglese, invece, il termine ha conservato l’accezione originaria: deliberare significa assumere una decisione, ma solo dopo averla discussa ed esaminata a fondo, “soppesando” i vantaggi e gli svantaggi delle varie opzioni. La democrazia deliberativa, che ha ormai radici teoriche consolidate (si veda, per tutti, Jurgen Habermas) è molto di più della “semplice” partecipazione, è un processo democratico basato sullo scambio di ragioni che mira a generare opinioni informate (altro che “semplice” informazione, comunicazione, diritto d’accesso ecc), consentendo di affrontare problemi comuni attraverso la cooperazione “simmetrica”. I partecipanti (in apposite arene) esercitano collettivamente il loro giudizio civico per arrivare ad una decisione/deliberazione reciprocamente accettabile. 


Le decisioni passate attraverso processi di democrazia deliberativa acquisiscono una legittimità maggiore, proprio se preparate in maniera deliberativa, poiché non vengono prese comunque da un piccolo gruppo ristretto ed élitario ma da un gruppo più ampio di partecipanti. Una parte di questi cittadini forse non condivideranno la decisione finale, ma tutti almeno riconosceranno la legittimità del metodo applicato. Stiamo in realtà parlando di una procedura decisionale che è <democratica> proprio perché <inclusiva> (“la moltitudine è più savia e più costante che un principe”) e che è <deliberativa> poiché si fonda sullo scambio pubblico di argomenti e di <buone ragioni> (attraverso il metodo dell’argomentare e negoziare). 


Non sappiamo se questa sarà la <prossima democrazia>, come ha intitolato Rodolfo Lewanski un suo recente contributo sul tema. Sappiamo che in Italia da anni numerosi comuni stanno sperimentando con successo azioni di democrazia deliberativa (cfr. il lavoro di ricerca di Luigi Bobbio, tra gli altri). E sappiamo che la democrazia deliberativa potrebbe essere un asse sul quale costruire l’azione di governo delle città per i prossimi anni, con l’obiettivo precipuo di tentare di dare una risposta concreta alla crisi della democrazia locale. La deliberazione, la generatività e la sussidiarietà non sono affatto un mero esercizio retorico, bensì pratiche di buon governo già in atto in tante realtà, pratiche che da sole potrebbero già offrire il senso di una <rivoluzione> nel modo di amministrare le nostre città, di <produrre comunità> e di rivitalizzare la partecipazione e la democrazia.