PROPOSTE DEL COM. ROMANO CONTRO OGNI AUTONOMIA DIFFERENZIATA E COORD DEM COSTITUZIONALE ROMA





LE PROPOSTE DEL 

"COMITATO ROMANO CONTRO OGNI AUTONOMIA DIFFERENZIATA,  PER L'UNITA' DELLA REPUBBLICA E LA RIMOZIONE DI OGNI DISEGUAGLIANZA" E DEL "COORDINAMENTO PER LA DEMOCRAZIA COSTITUZIONALE" ROMA

PREMESSA

Il Comitato romano contro ogni autonomia differenziata, per l’unità della Repubblica e la rimozione di tutte le diseguaglianze e il Coordinamento per la Democrazia Costituzionale di Roma partecipano insieme e convintamente al percorso di convergenza per connettere soggetti diversi, con l’intento comune di impedire che la pandemia abbia come esito la sopravvivenza del vecchio modo di produzione sociale e di rapporti di potere, evitando che élite capitalistiche, politiche e tecnocratiche riaffermino il loro dominio nell’organizzazione e nella gestione della società e dettino – con i loro devastanti alfabeti e le loro pratiche inique – il racconto del “dopo”, come già si sono avviate a fare. 

Abbiamo apprezzato la reiterata affermazione di non voler fare l’ennesimo comitato dei comitati; condividiamo la necessità di connettere le lotte e tentare di pervenire – tutti/e insieme – ad una olistica consapevolezza – che non limiti la specificità delle lotte di ciascuno, ma ne intensifichi il rapporto e la convergenza con altre istanze, in un allargamento e condivisione di finalità, in un progressivo appropriarsi comune della complessità delle vertenze singole che nella pluralità delle voci e dei contributi possono e devono trovare maggiore visibilità e rappresentanza. 

Abbiamo apprezzato, del Manifesto, la chiarezza di un linguaggio che non indulge a formule e retoriche superate, particolarmente nel delineare una possibile alternativa a un modello produttivo che ha portato la società e la natura a una tale condizione di degrado e distruzione, che può segnare un punto di non ritorno della crisi ambientale e sociale. Per questo è assolutamente condivisibile lo stretto legame che nel Manifesto viene stabilito tra giustizia sociale e giustizia ambientale. 

Proprio per questa convinzione il Comitato avverte l’esigenza di assumere il Manifesto non come l’espressione definita del processo di convergenza, ma come una sollecitazione al confronto anche culturale e ‘valoriale’. Per questo, riservandoci di contribuire con interventi più distesi, ci sentiamo di avanzare delle riserve proprio sul linguaggio e sui concetti di cui esso è espressione.

La prima riserva è sull’espressione ‘società della cura’, che riteniamo generica e ambigua in questo contesto pur se ripresa dalla pratica femminista. L’intenzione è certo quella di voler trasmettere un’istanza ormai indifferibile di solidarietà e di ‘presa in carico’ dei mali che stanno devastando l’umanità e la Terra. Non sfugge però che essa ricorra sovente nei discorsi di papa Francesco, per esempio nell’udienza generale del 16 settembre, dove, parlando di atteggiamenti necessari per salvare il pianeta, invita a ‘prendersi cura’ in modo da ‘correggere e riequilibrare il nostro rapporto di esseri umani con il creato’. Non ci sarebbe nulla di scandaloso nell’usare espressioni di papa Francesco, se non fosse che, a ‘prendersi cura’ della società e del pianeta saranno i soliti noti: le forze dell’imprenditoria capitalistica e della cd economia civile, al cui centro rimane pur sempre il mercato (si veda la Carta di Firenze, resa pubblica il 27 settembre). Tanto che questo tipo di elaborazione, nel contesto di una ‘economia di Francesco’, è in corso e vede protagonisti capi-azienda e grandi imprenditori, come dimostrano i lavori preparatori presso la Pontificia Accademia delle Scienze, un cui primo assaggio è stato l’incontro di Assisi del 19 settembre. Non ci pare di essere rétro, inoltre, se rileviamo che nel Manifesto il ‘capitalismo’ che, com’è noto, caratterizza la società contemporanea, non sia mai nominato. E così scompaiono anche le forze che sono responsabili della catastrofe sociale e ambientale, che sono l’ostacolo da superare, se si vuole intraprendere un nuovo cammino che porti alla giustizia sociale e ambientale. Un Manifesto che voglia indicare nuovi valori senza mettere in risalto i disvalori intorno a cui ruota l’attuale società è a dir poco monco, rischiando di essere un proclama di ‘buone parole’ che possono essere lette in sensi contrastanti come è appunto ‘la società della cura’.

Tra gli altri punti che meritano una riflessione e un confronto c’è ‘la democrazia di prossimità’. Chiaro è il suo senso: attivare canali di comunicazione e di decisione dal basso. Anche i nostri Comitati hanno fatto proprio il brocardo ‘ciò che tocca tutte e tutti, da tutte e tutti deve essere deciso’; ma la questione è proprio come costruire e come attivare questi canali, come far pesare istanze e interessi territoriali o dei gruppi o perfino delle singole persone sulle decisioni generali, come far sì che i/le rappresentanti, ai diversi livelli, rispondano ai/alle rappresentati. Porsi sul piano dei valori non può giustificare espressioni generiche il cui significato, per lo meno ai nostri Comitati, sfugge. 

In positivo riteniamo che un chiaro ed esplicito richiamo a come si stia disconoscendo il secondo comma dell’articolo 3 della nostra Costituzione per creare nuove disuguaglianze sarebbe il modo più efficace per evidenziare invece come si intende coniugare il rapporto tra la singola persona e la società e il ruolo di servizio che le istituzioni della Repubblica hanno, affinché ciascuno/a possa realizzare il proprio progetto di vita. 

Ma ciò che ci sta più a cuore è segnalare – e di questo tema avvertiamo pesantemente la mancanza nel Manifesto e lo inseriamo fra le tre proposte per la redazione della piattaforma comune – l’assenza di qualsiasi cenno alla democrazia costituzionale. E’ nostra convinzione, infatti, che qualsiasi vertenza possa trovare le proprie condizioni di praticabilità solo nell’alveo di un sistema di regole che governino le istituzioni e si propongano di dare consistenza ai principi fondamentali della Costituzione. 

E’ infine necessario, a nostro parere, indicare un percorso, lungo il quale organizzare e tenere assemblee tematiche su alcune questioni fondamentali, come la sanità, la scuola, l’ambiente, il lavoro, l’abitare, per approfondire e raccogliere dal basso tutte le istanze e le domande (sociali, politiche, istituzionali, culturali) che ruotano attorno a questi temi fondamentali. Anche perché in tali ambiti si stanno facendo le scelte in base alle quali saranno finalizzati, con l’arrivo dei finanziamenti europei, investimenti e risorse. Ed il rischio è che essi siano condizionati, come paventano in tanti, dalle criticità più evidenti del sistema, dalle grosse corporazioni, da modelli organizzativi obsoleti e da lobby professionali e di altro genere, come sta già avvenendo. 

Abbiamo voluto avanzare – tardivamente, a causa dell’impegno profuso durante la campagna per il referendum costituzionale, che ha visto una grande mobilitazione del nostro comitato ma, ci auguriamo, non inutilmente - queste riserve e argomentazioni critiche almeno su tre punti (società della cura, democrazia costituzionale, indirizzo dei finanziamenti) perché, sentendoci parte del processo di convergenza, vogliamo dare un contributo per mettere a fuoco questioni tanto rilevanti quanto complicate. Il fatto che queste righe fungano da premessa alle nostre proposte, testimonia il nostro impegno nel processo di convergenza e nella costruzione del programma e delle mobilitazioni, a cominciare da quella nazionale. I due Comitati romani si propongono quindi di partecipare al processo di preparazione della piattaforma di lotta e della manifestazione nazionale, che dovrebbe essere organizzata, come detto, anche attraverso assemblee territoriali, facendole diventare l’asse portante delle mobilitazioni.

PROPOSTE: 

1) per il ritiro dell’autonomia differenziata

2) per contrastare le disuguaglianze

3) per ripristinare la democrazia costituzionale e partecipativa


Proposte 1) e 2) unite, per il ritiro dell’autonomia differenziata e per l’eguaglianza


Alla luce delle condizioni economiche e sociali del paese, dello scollamento che ancora si sta manifestando nel paese tra Governo e regioni, dell’aggravarsi dell’epidemia da Covid-19, chiediamo di: 


  1. Ritirare le bozze d’intesa firmate Il 28 febbraio 2018, poco prima delle elezioni, tra le Regioni che per prime avevano chiesto l’autonomia – Lombardia, Veneto, Emilia Romagna - ed il Governo Gentiloni, con cui si pretendeva il trasferimento alle regioni di ben 23 materie (quasi tutte, salvo l’Emilia Romagna che ne chiedeva 10) e il ritiro di qualunque schema d’intesa preliminare, nel frattempo, intervenuto. Tale rifiuto deve essere rafforzato dalla consapevolezza che quasi tutte le regioni hanno presentato analoghi progetti e che il conferimento dell’autonomia differenziata parte da un accordo tra governo e singole regioni.
  2. Ritirare la proposta di legge quadro allegata al DEF 2020 e sospendere ogni trattativa in corso tra Governo e Regioni sull’AD. Oltre alle argomentazioni avverse nel merito a tale provvedimento – che si colloca come eversivo per il rispetto dei fondamentali principi costituzionali e dell’assetto istituzionale stesso – riteniamo che la priorità assoluta oggi, data la situazione epidemica, sanitaria ed economica, vada attribuita alla messa in sicurezza del Paese attraverso una strategia unica tra Governo e regioni, che garantisca identici diritti e opportunità su tutto il territorio nazionale
  3. Predisporre un piano di finanziamenti e d’interventi che progressivamente porti il Mezzogiorno a superare l’enorme divario con il Centro-Nord. Tale obiettivo è del tutto incompatibile con la pretesa delle regioni di finanziarsi trattenendo la maggior parte dei tributi erariali, il cuore della loro richiesta di autonomia differenziata. Finanziamento e fabbisogno vanno calcolati non sulla base della spesa storica, che ha contribuito a penalizzare il Sud, sottraendo una quantità enorme di risorse, ma con l’obiettivo di garantire prestazioni uniformi su tutto il territorio nazionale, che non è quello minimale che si vuole determinare con i LEP, come da proposta governativa.
  4. Mantenere indirizzi e competenze di carattere legislativo e programmazione dei finanziamenti a livello centrale al fine di garantire indirizzi e sviluppo omogenei su tutto il territorio. Va superato ogni centralismo statale ma anche regionale e vanno attuate le autonomie locali, potenziando quelle dei comuni, secondo lo spirito previsto dall’Art. 5 della Costituzione. Le regioni hanno il compito di articolare gli indirizzi e le disposizioni dello stato in collaborazione con i Comuni. 
  5. Contrastare le disuguaglianze fra i territori, attraverso un piano strategico di rifinanziamento delle aree che in tutti questi decenni sono state depredate e svalorizzate, privandole di risorse e strutture di base, dotandole oltre che delle infrastrutture necessarie, dei servizi indispensabili per il vivere civile. Questo presuppone che vi sia una collaborazione ed un sostegno significativo da parte di quelle aree del paese che finora si sono avvalse  per il proprio sviluppo proprio delle carenze del sud. 

Tali disuguaglianze, già enormi nel paese, si aggraverebbero con  l’applicazione dei LEP – Livelli essenziali di prestazione – previsti nel collegato al DEF 2020, nell’ambito del progetto di AD. La sperequazione nell’attribuzione dei finanziamenti si aggraverebbe attraverso la trattenuta della maggior parte dei tributi erariali, che tra l’altro, non entrerebbero in alcun fondo di perequazione come, ancora, succede, anche se in modo esiguo, perché il fondo è volutamente tenuto basso per volontà delle regioni del Centro-Nord, che hanno sempre frenato sui trasferimenti di danaro richiesti dai meccanismi del fondo perequazione per il sud. Inoltre, l’autonomia differenziata prevede che il finanziamento delle funzioni attribuite avvenga, non più sulla base dell’iniquo criterio della spesa storica, ma del fabbisogno standard per il finanziamento dei livelli essenziali (Art. 117, Titolo V). Il metodo dei LEP, tuttavia, per come calcolato, risulta essere altrettanto iniquo, perché i Livelli Essenziali di Prestazione (LEP) e Livelli Essenziali di Assistenza (LEA), rappresentano il minimo e non sono calcolati in  modo uniforme su tutto il territorio, soprattutto a danno del Sud. Inoltre il loro calcolo e attuazione presenta grandi difficoltà, mai superate in 20 anni. Se i LEP non sono stati attuati con la regionalizzazione introdotta dal Tit. V perché dovrebbero esserlo con l’AD che sancisce  l’esistenza delle differenze, sulla base del trattenimento delle entrate? 

  1. INTERVENIRE con le seguenti proposte di modifica su SANITÀ (dove il regionalismo introdotto dalla modifica del Titolo V ha già determinato effetti molto negativi e potenzialmente irreversibili),  SCUOLA e FISCO:


Sulla sanità


La Sanità rappresenta il terreno in cui il regionalismo introdotto dalla modifica del Titolo 5, ha anticipato in modo sensibile il progetto di autonomia differenziata. La pandemia ha reso evidente Il fallimento di tale scelta, con l’esistenza di 21 sistemi sanitari diversi, in competizione tra loro e con lo Stato. Ora Il SSN va rifondato e ricostruito su nuove basi e deve concorrere ad eliminare le disuguaglianze nel paese che la pandemia ha approfondito.  

Anche Confindustria e apparati economici vogliono ricostruire il Sistema sanitario, poiché hanno realizzato che le gravi perdite subite sono ben superiori ai costi necessari per mantenere una Sanità funzionante. Ma mentre noi chiediamo di ritornare ad un sistema pubblico, loro puntano all’estensione del privato. Ci opponiamo a ciò perché non è possibile conciliare le esigenze del profitto con quelle della salute. Ciò è risultato evidente nel corso della pandemia, allorché, su pressione di Confindustria, in determinate aree almeno il 50% delle attività produttive son rimaste aperte determinando le note tragedie della Val Seriana e delle provincie di Bergamo e Brescia. 

La sanità non può essere un capitolo di spesa pubblica da saccheggiare per pagare il debito e per affrontare le emergenze economiche, se mai è una leva di sviluppo da sostenere, visto che assorbe solo il 6,6% del PIL, e ne produce circa l’11%.  Si individuano le seguenti priorità nel medio e lungo termine.


  1. Ricostruire un Servizio Sanitario Nazionale unico e unitario secondo i principi stabiliti dalla L.833/78: universalità, equità e uguaglianza

Ciò comporta la sostituzione di un assetto sanitario basato sull’approccio individuale e privatizzato della malattia con un sistema basato sulla programmazione, la prevenzione e la partecipazione. 

Il SSN deve inoltre costituirsi intorno alla unitarietà tra prevenzione, cura, riabilitazione e reinserimento sociale e al coordinamento tra protezione della salute e tutela ambientale. 


  1. Rivedere la normativa in essere in materia di salute e organizzazione sanitaria che ha accelerato le scelte aziendaliste ed il rafforzamento del privato. 

Dismettere la scelta aziendalista. La normativa successiva alla L.833/78 ha portato attraverso i D. Lgs 502/1992 – Controriforma De Lorenzo - (stesso anno in cui l’Europa, col Trattato di Maastricht, abbraccia la scelta ultraliberista), e 517/1993, alla trasformazione di USL e grossi ospedali in aziende (ASL e AO). 

La scelta aziendalista ha limitato fortemente l’assolutezza del diritto alla salute, ponendo obiettivi improntati a logiche di efficienza, produttività, pareggio di bilancio, per cui il diritto alla salute è stato condizionato dalla spesa e dal mercato, quando non da interessi illeciti. Ha inoltre accelerato l’introduzione del privato. 

Ridimensionare il privato, che ormai rappresenta oltre il 50 % rispetto al pubblico, sia come numero di servizi/strutture sia come spesa sostenuta dal pubblico. E’ costituito dalle strutture private accreditate, da numerosi ed importanti servizi esternalizzati - amministrativi, logistici e privati -, dalla sanità privata integrativa, in realtà sostitutiva.  Il privato non avrebbe ragion d’essere se il pubblico fosse adeguatamente finanziato, e non avrebbe convenienza ad operare se criteri di accreditamento e controlli fossero stringenti. I servizi esternalizzati, che causano sprechi e corruzione, vanno ricondotti all’interno. Vanno disincentivati gli strumenti di privatizzazione occulta (fondi sanitari integrativi, welfare aziendale).  Vanno resi più severi i criteri di accreditamento e i controlli. Vanno superati i pagamenti di tasca propria (Ticket e altre forme di partecipazione) che incentivano la sanità integrativa.


  1. Rivedere quantità e distribuzione dei finanziamenti necessari al SSN.

Oltre alla restituzione degli oltre 37 miliardi scippati al SSN nel suo complesso in meno di 10 anni va ricalcolato il fabbisogno reale non sulla base della spesa storica che penalizza fortemente il Sud e le isole, ma valutando le reali necessità di tutte le regioni del Sud. Il Gap esistente ammonta a moltissimi miliardi e richiederà anni per essere superato al fine di attuare quel principio di perequazione finora tradito. In tale contesto i cosiddetti LEA (Livelli Essenziali di Assistenza), vanno ricondotti ad essere Livelli Uniformi di Assistenza, cioè uguali ed omogenei su tutto il territorio, come previsto dalla L.833/78, e vanno depurati da tutte quelle prestazioni inutili ed inappropriate, che sono imposte dalle varie lobby, e che contribuiscono a fare la fortuna della sanità privata ed integrativa. Il finanziamento deve avvenire attraverso la fiscalità progressiva generale.


  1. Rafforzare gli organici del personale ed eliminare il precariato.

Avviare in collaborazione con l’Università un piano di assunzione di medici specializzati/formazione, infermieri, tecnici ed altre figure professionali, che preveda la stabilizzazione dei precari per colmare il vuoto degli organici determinatosi in 13 anni di blocco di turn-over, considerando che entro il 2025 andranno in pensione 53.000 medici e che, allo stato attuale, mancano complessivamente oltre 50.000 operatori.

  1. Ricostruire la sanità territoriale, che deve poggiare sui servizi di assistenza sanitaria, sociale e riabilitativa di base, i Servizi di Igiene Pubblica e Prevenzione, i Servizi per la tutela e sicurezza sui luoghi di lavoro e i Consultori, in gran parte smantellati, dotandoli delle figure professionali necessarie e della strumentazione idonea. Alla ricostituzione della sanità di base territoriale va data priorità e deve essere perseguita nell’ambito del SSN, con finanziamenti pubblici e non attraverso convenzioni con gruppi e cooperative private. In questo contesto vanno riorganizzate le cure primarie da affidare a medici di famiglia, che dovrebbero passare alle dipendenze del SSN. 


  1. Rivedere l’organizzazione ospedaliera, prevedendo diversi livelli d’intensità e complessità, l’integrazione dei dipartimenti e la continuità con le cure territoriali. Va programmata nel tempo la distribuzione uniforme degli ospedali specialistici e ad alta intensità di cura tra Nord, Centro e Sud per bloccare la mobilità sanitaria che sottrae miliardi di risorse al Sud, favorendo i ceti più abbienti e costringendo gli altri a grandi sacrifici. Se i servizi territoriali ed ospedalieri funzionano e sono tra loro integrati non è necessario aumentare di molto i posti letto. 


  1. Ricostruire la prevenzione primaria e collettiva

La prevenzione primaria si era sviluppata, nei primi anni di applicazione della L. 833/78 in alcune regioni, soprattutto in quelle poi maggiormente colpite dalla pandemia, attraverso i Servizi di Prevenzione, che cercavano di coniugare tutela della salute e tutela dell’ambiente. Con l’istituzione del Ministero dell’ambiente e nonostante l’accresciuta consapevolezza dei gravissimi traumi arrecati ad ambiente, natura e alla nostra stessa vita, non vi è mai stata collaborazione tra i Ministeri della Salute e dell’Ambiente: è necessario realizzarla e prevederla nel SSN. 

La prevenzione collettiva e di comunità avviene nei luoghi di vita e di lavoro, nelle scuole, nelle comunità e riguarda le attività di diagnosi precoce, promozione della salute, profilassi delle malattie infettive etc.  In questo contesto ricostruire una rete epidemiologica nazionale. 


  1. Liberare la sanità animale dai condizionamenti del mercato e del profitto

Vanno potenziate e rinnovate cultura, formazione ed organizzazione della sanità animale e dei servizi veterinari, per far fronte ad un sistema prevalentemente costituito da grandi allevamenti intensivi, dove gli animali sono mantenuti in condizioni di sovraffollamento innaturali, sottoposti ad ingrasso ed alimentati con antibiotici e sostanze chimiche. Questo è inaccettabile perché gli animali sono esseri viventi che soffrono e patiscono come noi e perché, in condizioni innaturali e di stress ambientale, come si è visto, virus e batteri possono fare il “salto di specie” invadendo altre specie animali e l’uomo, i cui sistemi immunitari faticano a raggiungere un equilibrio (tolleranza) con essi. È quindi necessario ridurre gli allevamenti animali intensivi che portano alla distruzione di ampie parti del pianeta e delle stesse popolazioni come in Amazzonia. 


  1. Realizzare un polo pubblico di ricerca e produzione farmacologica, reattivi di laboratorio, dispositivi biomedicali e di protezione individuale. 

E’ essenziale realizzare un’industria pubblica del farmaco e imprese per la produzione di reattivi di laboratorio, dispositivi biomedicali e di protezione individuale he vanno considerate priorità strategiche per il paese. Esse vanno programmate e realizzate  coinvolgendo, anche in un quadro europeo, le strutture del Servizio Sanitario Nazionale e quelle militari, già deputate alla produzione di farmaci. Se le avessimo avute  avremmo sicuramente affrontato meglio la pandemia. 

  1. Recuperare la partecipazione di Comuni e Comunità locali

La tragedia del coronavirus ha svelato la carenza di preparazione scientifica, il venir meno di una cultura di sanità pubblica e la superficialità con cui media e presunti scienziati  hanno trattato gli argomenti attinenti l’epidemia, ma anche la mancanza di una conoscenza diffusa circa la salute nella popolazione. Va quindi riscoperta l’importanza della conoscenza come bene pubblico e anche come garanzia di democrazia. La salute, come altre condizioni del nostro vivere non è solo un affare da ‘esperti’, ma richiede anche la messa in comune delle conoscenze delle persone: quindi vanno garantite nei territori forme di partecipazione, per  affiancare le istituzioni nel promuovere la  salute, come era previsto dalla 833/78 


Sulla scuola


Il Covid e le sue conseguenze hanno portato al pettine i nodi di politiche scolastiche regressive, condotte – senza distinzione di sorta – da centro sinistra e centro destra negli ultimi 25 anni.

L’affollamento delle aule, frutto di politiche di intenzionale disinvestimento sulla scuola pubblica - configuratosi anche in un continuo ritocco in eccesso del rapporto alunni/docente, espressione peraltro della  perdita della centralità del diritto allo studio e all’apprendimento - assume ora i connotati di una sempre più scarsa sicurezza per lavoratori e studenti, che si va ad aggiungere alla fatiscenza delle strutture, altro decennale problema irrisolto e al perenne tema dei trasporti pubblici. 

Le risposte si sono concretizzate in un affastellamento di linee guida e protocolli destinati agli istituti scolastici,  autorizzati, sulla base della autonomia scolastica, ad una interpretazione più o meno libera e – soprattutto – ad un titanico lavoro di adeguamento delle strutture alla situazione attuale. 

In queste condizioni, solo accennate, più che mai emerge il tema della autonomia regionale differenziata, che tocca la scuola pubblica – strumento dell’interesse generale e del principio di uguaglianza, declinato dal comma 2 dell’art. 3 della Costituzione – in maniera più che drammatica: lo stato attuale consente un allargamento delle maglie della diversificazione tra istituto e istituto, rendendo coscienza collettiva una visione privatistica e proprietaria, non più pubblica e collettiva, di quello che – invece – è e deve continuare ad essere un organo costituzionale. Sarà ancor più buon gioco avanzare la prospettiva di potenziali 20 sistemi scolastici, a marce differenti, con caratteristiche differenti, con una rimodulazione su base regionale di tutto quanto rende la scuola tale: contratti dei lavoratori, norme generali, reclutamento, valutazione, contenuti disciplinari, formazione dei docenti, conferimento della parità scolastica, gestione dei rapporti con aziende e privati e molto altro ancora; la spina dorsale del Paese, la dimensione culturale identitaria, l’ascensore sociale segmentati in configurazioni differenti e differenziate, destinate ad aumentare ulteriormente il gap tra le regioni del Nord e quelle del Sud anche rispetto all’istruzione.  

L’autonomia regionale differenziata nella scuola produrrà l’effetto di asservire coscienze di lavoratori e studenti a criteri imprenditoriali, di profitto, convenienza, omologazione o subordinazione al come e al cosa l’indirizzo politico della regione vorrà far prevalere nel processo di insegnamento-apprendimento e nell’organizzazione degli istituti. Il pensiero pedagogico unico, la logica del profitto, la subordinazione della democrazia scolastica al volere di pochi, la definitiva prevalenza delle competenze sulle conoscenze, la valutazione come esercizio di contenimento di espressioni del pensiero libero e plurale, la messa al bando del pensiero critico analitico e della cultura emancipante, la conseguente soppressione del valore legale del titolo di studio, la fine della scuola “aperta a tutti” – elementi già sin troppo permeati dopo anni di (contro)riforme violentemente neoliberiste, che hanno smontato intenzionalmente l’architettura che la Costituzione ha configurato per la scuola della Repubblica (laica, pluralista, democratica ed inclusiva), sono solo alcune delle conseguenze che andranno ad impattare violentemente non solo sui destini dei singoli individui, ma sulla democrazia del e nel Paese, sulla partecipazione ed eguaglianza dei cittadini e delle cittadine, tutti e tutte. E’ bene che tutti comprendano che l’autonomia regionale differenziata nelle scuole rappresenta un affare economico e politico di dimensioni straordinarie: più di un milione di lavoratori e circa 7 milioni di studentesse e studenti con le loro famiglie rappresentano una platea irrinunciabile da ammaestrare e piegare alla logica del consenso (si pensi ai temi del reclutamento e della formazione), a cominciare dal contratto dei lavoratori, non più collettivo, ma parcellizzato in declinazioni regionali. 

Tutto ciò ha trovato un eccezionale acceleratore nella pandemia e nella conseguente gestione dell’emergenza, che  hanno posto fortemente in evidenza, oltre al tema della sicurezza, una serie di questioni che – portate avanti dalle politiche scolastiche che si sono avvicendate negli ultimi 25 anni – attentano all’integrità della scuola pubblica, che fonda su una legislazione unica (nella garanzia dell’interesse generale e dell’uguaglianza delle cittadine e dei cittadini) di alcune caratteristiche e sulla difesa di alcuni principi, ancora costituzionalmente ispirati il proprio ruolo di strumento di eguaglianza, emancipazione e espressione del pluralismo e della democrazia: viatico unico per determinare una cittadinanza consapevole.

L’attacco a tale unitarietà e a quei principi – che ha trovato nei diktat europei un potentissimo appoggio - è stato concentricamente portato avanti negli anni non solo dalle politiche governative e dalla incredibile teoria di riforme che si sono susseguite, ma anche da alcuni soggetti fortemente legati al mondo imprenditoriale e alla violenta ideologia capitalistica: le politiche scolastiche da non poco tempo sono sottoposte al vaglio insindacabile della Compagnia delle Opere, della Fondazione Agnelli, di Confindustria e di altri soggetti che, in perfetta soluzione di continuità con le linee guida dell’UE, dettano la linea e i contorni di una scuola progressivamente decostituzionalizzata. Sono per molti versi i partner affidabili dei “governatori” che reclamano l’autonomia differenziata. 

Pur rivendicando la perenne carenza di fondi, essenziale anche per stabilizzare lavoratori che da lustri mandano avanti la scuola, sottoposti a condizioni contrattuali che ne precarizzano l’esistenza oltre alla condizione lavorativa, bisogna sottolineare che, qualora anche i fondi fossero consistenti, DEVE  essere sradicata la tendenza alla privatizzazione e allo smantellamento di principi che – soli – rappresentano la salvaguardia della funzione che la scuola pubblica deve avere in un paese democratico. 

Premesso che la conformazione del modello di scuola della Repubblica affonda le proprie radici nel dettato degli artt 3, 9, 21, 33 e 34 della Carta proponiamo di tendere progressivamente alla realizzazione dei seguenti obiettivi: 


  1. adeguamento della spesa in istruzione italiana (3,6% del Pil) alla media dei paesi europei (5%); 
  2. definizione, come priorità immediate, della riqualificazione degli istituti scolastici e della riduzione del rapporto alunni/docente (non più di 22 alunni per classe, numero che diminuisce in presenza di studentesse e studenti diversamente abili); 
  3. stabilizzazione dei precari su tutti i posti di conseguenza disponibili;
  4. innalzamento dell’obbligo  scolastico a 18 anni, con difesa del valore legale del titolo di studio; tale obbligo deve veder garantiti gratuitamente iscrizione, strumenti didattici, trasporti dedicati
  5. accoglienza, orientamento, alfabetizzazione delle studentesse e degli studenti migranti 
  6. obbligatorietà della scuola dell’infanzia pubblica, con progressiva diffusione omogenea su tutto il territorio nazionale
  7. ripristino del tempo pieno nella scuola primaria e del tempo prolungato nella scuola secondaria di I grado  su tutto il territorio nazionale, adeguato alle richieste della popolazione scolastica
  8. istituzione di biennio unitario nella scuola secondaria di II grado
  9. centralità degli organi collegiali, con forte enfasi sul collegio dei docenti; riconoscimento della funzione propositiva delle assemblee degli studenti; Consiglio Superiore della Pubblica Istruzione – organo supremo – espressione di pareri vincolanti per le politiche scolastiche, con particolare cogenza sulle violazioni degli artt. 21 e 33 comma 1 della Costituzione.
  10. abolizione della dirigenza scolastica e individuazione di un preside eletto direttamente dal collegio, con mandato triennale; definizione di una  figura preposta esclusivamente alle funzioni amministrative. 
  11. abolizione dei test Invalsi; smantellamento del Sistema nazionale di Valutazione; abolizione del voto numerico anche alla scuola secondaria di I grado; centralità delle conoscenze rispetto alle competenze; ridefinizione del linguaggio:  via il tortuoso e ammiccante “pedagogese”, infarcito di anglicismi, termini permutati dal linguaggio bancario, acronimi (Ptof, Rav, Bes, Dsa, Tic);
  12. esclusione dal sistema nazionale di istruzione delle scuole paritarie private;
  13. collocazione dell’insegnamento di religione cattolica in orario extracurriculare; 
  14. obbligo nella formazione in entrata per i lavoratori della scuola di conoscenze relative alla Costituzione e  ai suoi principi nonché  alla specificità del contratto collettivo nazionale;
  15. esclusione, nei percorsi di formazione in itinere per docenti, di qualsiasi soggetto che rappresenti il mondo imprenditoriale;
  16. sostituzione dell’alternanza scuola-lavoro con percorsi di “cultura del lavoro”: dalla centralità dello sfruttamento alla centralità dei diritti; 
  17. le tecnologie non devono rappresentare una imposizione (che facilmente può configurarsi come controllo delle coscienze e imposizione di un metodo di studio) ma come strumento scelto in virtù della libertà di insegnamento.


Ribaltare il paradigma corrente, privatistico e classista, disinfestare lo spazio culturale dal dominio del mercato, ricostruire l’equilibrio di diritti e poteri, restituire il sistema scolastico alla funzione di promozione del pensiero critico e della cittadinanza consapevole. 


Sulle disuguaglianze in generale


L’Italia è uno dei paesi più diseguali e stratificati d’Europa. Secondo l’ultimo rapporto Oxfam, riferiti al biennio 20018-2019, il 20% più̀ ricco degli italiani detiene quasi il 70% della ricchezza nazionale, il 20% il 16,9%, e il 60% più̀ povero appena il 13,3%. La posizione patrimoniale netta dell’1% più̀ ricco (con il 22% della ricchezza nazionale) vale 17 volte la ricchezza detenuta dal 20% più̀ povero della popolazione italiana. 

Tali disparità, determinate in primo luogo dal calo della combattività sindacale, accentuate dalla crisi del 2007-2008, si sono approfondite con la pandemia e sono destinate ad incrementarsi drammaticamente, come già scritto, qualora passi il progetto di Autonomia differenziata, colpendo le periferie ma soprattutto Sud e Isole, che già ora ricevono complessivamente ogni anno 60 miliardi in meno dallo Stato. 

  1. Proponiamo il riorientamento del sistema fiscale ai criteri di progressività previsti dalla Costituzione, in modo che diventi reale strumento di perequazione, anche attraverso una lotta reale all’evasione fiscale.




Proposta 3) per una democrazia costituzionale e partecipativa


In questi decenni abbiamo assistito al progressivo depauperamento dei meccanismi di partecipazione democratica sia a livello centrale che periferico, per cui è ormai totale lo stacco tra cittadini ed istituzioni democratiche. 


  1. Ripristinare la democrazia costituzionale. Gli eletti non rappresentano ormai gli elettori, sia a livello ideologico che territoriale, a causa delle leggi elettorali, a tutti i livelli, degli ultimi decenni, caratterizzate da premi di maggioranza, sbarramenti, liste bloccate, pluricandidature. Di fatto vengono ormai scelti dai partiti maggiori, sia a livello parlamentare che negli Enti Locali, dove le regioni hanno sostituito il centralismo dello Stato con il proprio centralismo nei confronti di Comuni ed istituzioni sanitarie. Una conferma è venuta anche dal recente referendum che con l’approvazione del consistente taglio di parlamentari ha fortemente ridotto la rappresentanza del paese in Parlamento, introducendo inoltre forti differenze a livello di rappresentatività delle diverse regioni. Ciò è del resto coerente con il progetto di Autonomia Differenziata, che porterebbe a 21 staterelli autonomi, svuotando in modo pressoché totale il Parlamento delle sue competenze, e quindi della sua rappresentanza.  

Anche gli organi di garanzia costituzionale, i “contrappesi” che dovrebbero garantire la democrazia, sono stati resi inefficaci, attraverso la deformazione delle composizione del Parlamento dovuta ai premi di maggioranza, attraverso il taglio dei parlamentari, attraverso la modifica dei criteri di elezione, in assenza di leggi che evitino concentrazioni in editoria, ci ritroviamo così Presidenti della Repubblica, Corte Costituzionale, Corte dei Conti, CSM, editoria, sempre più acquiescenti al volere di governi e poteri forti.


  1. Rivitalizzare la partecipazione dei Comuni e delle Comunità Locali. In questi anni i Presidenti delle regioni, che impropriamente si fanno chiamare governatori, hanno molto contribuito all’abbassamento della partecipazione democratica. Anche questo aspetto è stato evidenziato dalla pandemia, giacché tutte le decisioni, spesso controverse, hanno ignorato i comuni. Si tratta quindi di recuperare quanto espresso dal dettato costituzionale agli Art. 3, c. 2 e Art. 5. In particolare le Regioni devono trasferire ai comuni le funzioni amministrative indebitamente trattenute, ed i Comuni a loro volta devono assicurare la partecipazione di cittadini e cittadine attraverso le forme e gli istituti che si sono dati. In generale la modifica del titolo V della Costituzione, oltre ad aprire la porta all’autonomia differenziata, ha creato grandissimi problemi, non solo conflitti di attribuzione di competenze fra Stato e Regioni, ma dissesti organizzativi, sperequazioni territoriali, nuove occasioni di corruzione e conseguenti spaventosi danni economici, da richiedere un grande ripensamento generale.


Sarebbero molti gli aspetti da affrontare per ripristinare una democrazia costituzionale e partecipativa, se ne sono accennati alcuni fra i più importanti, meritevoli di trovare sinergie con altre forze e del necessario approfondimento per diventare proposte concrete.